Docente di Storia della Lingua Italiana
presso l’Università Cattolica di Milano e di Brescia, Michele Colombo possiede
un curriculum vitae intenso e carico
di attrattiva. Oltre a vantare un elenco nutrito di pubblicazioni, è stato visiting professor in numerose università all’estero, tra le quali spiccano
quelle in Russia, Ungheria e Australia. Di seguito, una breve intervista sulla
lingua e sul romanzo italiani.
Romanzo
contemporaneo in Italia. C’è chi sostiene che sia in atto un decadimento del
gusto del pubblico ed un imbarbarimento dello stile e dei contenuti da parte
degli autori. Qual è il Suo parere al riguardo?
Credo non si
possa generalizzare. Lo dico, per la verità, da semplice lettore, visto che
l’argomento non rientra tra quelli di cui mi sono occupato nella mia attività
di ricerca. In ogni caso, mi pare che le sciatterie, di contenuto e di forma,
siano più di alcuni che dell’insieme. E mi riferisco all’impiego di sesso e
violenza per puntellare una trama altrimenti fragile fragile, oppure a tratti
del parlato che non sono motivati artisticamente, ma denotano semplicemente
incuria. Un esempio in positivo: Giuseppe Pontiggia, un autore che apprezzo
molto per la sua umanità e che ha sempre mostrato una scrittura curata e
semplice al tempo stesso.
Nella
lingua letteraria e nazionale cos’è mutato rispetto al secondo dopoguerra?
Quali sono i cambiamenti linguistici oggi più manifesti?
Il
primo cambiamento fondamentale, per quanto riguarda l’idioma nazionale, è certo
che l’italiano è ormai parlato correntemente pressoché dalla totalità dei
cittadini italiani: da quest’uso quotidiano della lingua discendono poi una
serie di mutamenti, principalmente nel senso di una semplificazione, in
particolare sul piano morfosintattico, delle strutture. Si tratta spesso,
d’altronde, di caratteri che già da secoli sono presenti nella storia
dell’italiano, come l’uso di gli per
‘a lei’ (basta leggere Boccaccio) o l’impiego della dislocazione a sinistra (il
tipo Il giornale lo compra mio padre),
che nel parlato sostituisce spesso l’uso del passivo con complemento d’agente
espresso (Il giornale è comprato da mio
padre).
Il
romanzo dell’Ottocento. Lei ne parla in una Sua pubblicazione. Manzoni e Verga,
un milanese e un siciliano, un asse di unità linguistica. Ci indica il punto di
convergenza della lingua in questi due autori?
Il
punto di convergenza − considerando la produzione narrativa − è, mi pare, duplice:
per un verso si tratta senz’altro dell’Italia stessa, cui entrambi intendono
parlare con una voce che, per dirla con Verga, venga da «polmoni larghi»;
d’altro canto sia l’uno sia l’altro sono concentrati, pur con prospettive molto
diverse, sul mondo degli umili, cui vogliono dare una voce dignitosa: è una
stima per la realtà popolare che credo costituisca anche un punto importante
dell’identità italiana.
Adesso, procediamo a ritroso: lei si
interessa anche di grammaticografia secentesca e di volgari medioevali. Qual è
la fase più affascinante, più incisiva per l’evoluzione linguistica?
Sono
davvero in imbarazzo nel rispondere, anche perché, ogni volta che nei miei
studi passo a un ambito nuovo, sia dal punto di vista cronologico sia da quello
tipologico, mi appare, almeno all’inizio, molto più appassionante di tutti
quelli che ho affrontato fino ad allora. Direi che quel che importa per rendere
affascinante un argomento è cogliere il nesso che lo lega a una visione
d’insieme: se questo c’è, il gusto dello studio non può mancare.
Dal 19 al 22 marzo si sono svolti cinque
incontri sui dialetti italiani con la professoressa Maria Desyatova
dell’Università Ortodossa di Studi Umanistici San Tikhon (Mosca). Il dialetto
colora la comunicazione, in esso troviamo colloquialità spontanea. Può in
alcuni casi essere definito anche aulico ed elegante?
Senza
dubbio. Anzi, direi che nella poesia dialettale contemporanea − basta citare
Franco Loi − l’impiego dell’idioma locale si è spesso connotato più per il tono
raffinato che per il legame con la tradizione popolare.
Può
essere sbagliato insegnare i dialetti nelle scuole?
Non credo che il
dialetto debba essere inserito tra le materie scolastiche: il che non significa,
beninteso, che il suo uso debba essere represso dagli insegnanti o che −
soprattutto nella scuola media superiore − l’insegnamento dell’italiano non sia
arricchito da riferimenti al vernacolo locale. Ma il problema attuale della
scuola mi pare la ridefinizione dei saperi fondamentali su cui concentrare
l’attenzione degli alunni, non quello di aggiungere nuove materie; per il
dialetto, tra l’altro, sarebbe difficile trovare docenti preparati, soprattutto
nel caso si trovino a insegnare fuori dalla propria città d’origine.
Concludiamo
l’intervista con una richiesta assai meno didattica: ci saluti in antico vernacolo milanese.
In antico milanese? Per la verità,
arrivo a malapena al milanese moderno: ve salüdi!