In
un gioco naturalistico e altalenante di elementi astratti e concreti, animati e
talvolta privi d’essenza vitale, si tinge la visione mai macchinosa della
realtà montaliana.
Luci
e presentazioni materiali di ambienti e stati d’animo travalicano l’immaginario
metropolitano contemporaneo per incorniciare i paesaggi vicini ed incontaminati
dell’autore e della lirica più tradizionale, quella proiettata verso squarci
agresti rivelatori di forte enfasi poetica.
La
poesia Non rifugiarti nell’ombra,
tratta dalla raccolta “Ossi di seppia”, non si esime dalla compresenza di tutti
questi caratteri.
La
natura e la dialettica delle ombre-luci, presenti nella poesia sopra citata, si
intrecciano con la natura e la dialettica, dunque con il moto interiore, con le
contraddizioni molteplici proprie dell’uomo: luce ed ombra, natura luminosa ed oscura,
all’interno, nell’animo, e all’esterno del corpo, nel mondo.
In
un’estrema analisi non solo troviamo l’invito a non fuggire e l’intento “di accettare
la realtà e di cogliere l’elemento di riscatto” come suggeriscono Francesca
D’Alessandro e Claudio Scarpati nel volume “Invito alla lettura di Montale”[1];
in questo componimento si snoda tra le righe anche la natura ambivalente
dell’uomo: ci muoviamo tra dubbio e sicurezza, tra bene e male, tra il
“disagio” ed il “sereno di una certezza”. È tutto un intreccio della natura
umana e di quella dell’ambiente circostante.
Ricorrono
i temi tipici di una poesia non sentimentale, non smielata e romantica, ma più
ridondante di immagini sfilacciate, sfibranti, in dissolvenza e quasi vaporose
– in particolar modo si guardi alla terminologia nella seconda parte del
componimento – che riportano al
sentimento tipico dello smarrimento, di uno status
di perenne incertezza, di quel malessere che conduce alla fuga e alla rinuncia.
Tuttavia la poesia è un canto all’abbandono dell’arrendevolezza: l’autore
chiede di non rifugiarci, di non mollare nel momento di maggiore fatica, di non
seguire l’esempio animale del falchetto che si precipita, si affretta, nell’ombra
durante la caldura. Eugenio Montale divelle, sradica, la paralisi che blocca
l’uomo nel canneto ed esorta a riflettere sull’esistenza, su ciò che abbiamo di
fronte, sulle “forme della vita”, che subito si deteriorano e che perdiamo per
effetto dello scorrere del tempo[2].
Non
a caso si può ricostruire tale analisi sulla visione del poeta e della sua
opera. Infatti, facilitato dagli studi autodidattici, Montale entrò presto a
contatto con varie e autorevoli letture filosofiche (quelle che meglio reputava
necessarie, che lo irretivano, ammaliandolo e portandolo a decifrare in sé
medesimo lo stile e le strutture tematiche che in seguito lo contraddistinsero),
impregnando così la sua progenie letteraria, forse anche inconsapevolmente, di
rimandi e di riflessioni quanto più profondi e talvolta metaforici, celati dal
suo buon gusto di mettere in primo piano, nella superficie delle parole e dei
testi, oggetti che sottendevano ulteriori e più suggestivi significati
introspettivi e ideologici. Pur verificandosi un’“aspra ma decisiva vittoria
della forma sulla psicologia”, come affermato dal Contini[3],
non si può negare come la coscienza, la personalità e la psiche di Montale vengano
ad esibirsi nei suoi testi, quasi con delicata inibizione, ma pur sempre
mostrandosi.
Per
tutta la durata del componimento, lungo l’asse verticale della poesia, si
avverte una tensione vibrante, creata elaboratamente dal raffinato uso,
frequente e talvolta ripetuto, della costrittiva alveolare sonora r accostata nel suono da b, t, g e ancora da sb, st, sg… così sino a
poter enumerare tante altre combinazioni composte o più semplici. La consonante
r è ancora signum di quel conturbante sbalzo – di cui si è detto sopra – tra l’oscurità del dubbio e la luce
chiarificante che diviene determinazione di sicurezza, determinazione di ciò
che è certo. L’anatomia del testo, così fatta, coadiuva la scoperta dell’autore
e dell’uomo di “Ossi di seppia” e più delicatamente fa scorgere l’ambivalente
sfaccettatura del creato. Un poeta e una poesia di molteplici dubbi, illusioni
e al contempo speranze riposte e ferme convinzioni: si tratta di un
mobilitarismo etico ed esistenziale, quasi cosmico e riassuntivo del tutto.
E
ancora il maestro genovese si adopera, abile e armonico, in una poesia farcita
di gustosi ingredienti letterari: pur mancando uno schema ritmico tradizionale,
fisso, non scarseggiano assonanze e consonanze, figure retoriche del suono che
contribuiscono a rendere Non rifugiarti
nell’ombra un dolce textum, una
tela di filosofia e umana rappresentazione. Sono insomma evidenti la realtà ed
il magnifico moto poetico di Montale, le cui raccolte di poesie furono da lui
stesso ritenute un’unica opera. Opera lirica – a ben dire per un critico di
musica e teatro – di una vita d’autore e
fremito.
La
contraddizione, le disillusioni, le vicende del Montale-uomo avvalorano la
tesi, come se fossero indici di una lotta equilibrata tra movimento meditativo
e afasia, tra azione e ritiro solitario-poetico,
tra materia e astrattezza. Nelle pagine delle opere dell’autore riversano la
sottile natura umana, l’eleganza di un linguaggio che rende nitide le immagini
che vuole proiettare. In quelle pagine affluiscono tutte le caratteristiche
tipiche che fanno di uno scrittore un grande maestro.
[2]
Gianfranco Contini,
filologo e critico letterario italiano, nonché grande conoscitore del Nostro,
nella sua raccolta di saggi Una lunga
fedeltà, Scritti su Eugenio Montale (Einaudi 2012) dichiara che “la distruzione meridiana è il
segno esterno più indicativo di questa figura che è: sciogliersi della vita”.
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