(Nota dell'autrice: da dove nascono le storie? Oggi vi dico dalla
Sfiga. Solo dopo una giornata come questa, poteva nascere “La studentessa
inesistente”. Ammetto che mi sento un po’ una scrittrice comunista con questo
testo, forse sarò anche così d’ora in poi.)
La studentessa inesistente
È stato nella biblioteca dell’università
statale di Milano che mi sono accorta di come lo studio alieni noi giovani. Dopo
tre ore passate concentrata su un testo di letteratura, ho alzato il capo e mi
sono guardata attorno. Tutti erano chini, la luce dei loro posti li illuminava uno
a uno, seri e impegnati. Erano lontani anni luce dal mio momentaneo risveglio.
Ma non fu solo quello a farmi capire che
eravamo affetti da alienazione da studio, neppure il fatto che sapevo che la
società aveva prolungato la preparazione sino ad un’età incredibilmente adulta.
Fino a trent’anni in Italia studiamo, perché, sì, per avere un buon lavoro
dobbiamo fare una triennale, una specialistica, un master, qualche stage
prestigioso. Ed è come se la maggior parte non sentisse l’ansia del tempo. Ma chi
studia biografie letterarie come me, viene assalito sempre dall’ansia del
tempo. Alla mia età si dovrebbero fare le grandi cose, si dovrebbero smuovere i
poteri, le terre, andare contro mare. Si dovrebbe scrivere la propria singolare
biografia e invece ridotti all’alienazione. In quell’orrendo momentaneo
risveglio l’università mi sembrò una fabbrica a catena di montaggio. Ma non fu
solo quello, dicevo.
Mi accorsi dell’effetto dello studio una volta uscita fuori da quell’enorme sala studio, dal tetto altissimo che
rendeva ancora più piccole le figure studiose al mio passaggio; al mio
passaggio quelle figure non sembravano ingrandirsi, ma rimanere sempre minute.
E come non me lo spiegavo.
Uscita all’aria, la realtà non pareva
realtà. I miei occhi da miope sembravano velati da qualcosa che non c’entrava
con i gradi mancanti. C’era un distacco tra me e le colonne, i corridoi, che
riguardava anche il mio udito e il mio tatto; e lo ripetevo alla mia amica che
mi stava accanto e che non pareva rendersi conto dell’alienazione.
Io mi ero momentaneamente risvegliata, e
lei?
Non lo sapevo. Non sapevo quanti eravamo
svegli, l’unico modo per scoprirlo era parlare loro, trovarli tra i tanti… e
fare cosa? Una congregazione? Fare gli emarginati? O le guide? Ma gli automi
non seguono mai le guide morigerate, i giusti, seguono quelle che gli hanno
messo i cip dentro. Il cip della fede, sapete? Quel cip che rende gli automi convinti,
senza dubbi. Quel che fanno è la cosa corretta, fa credere loro il cip, devono
fare la guerra per questo, dice loro il cip.
E allora cosa potevo fare io? Non volevo
vedere quelle menti flaccide, temevo le menti flaccide, le più pericolose. Le menti
sciocche sono davvero le più spaventose. E allora mi ripromisi tre volte di
cominciare a cercare gente brillante, che vivesse momenti di risveglio più
costanti e lunghi dei miei.
Dovevo avere questo impegno. Se io
avessi aiutato loro, loro avrebbero aiutato me. E forse avremmo trovato un modo
per rimanere svegli. Inalienati.
E l’ignoranza? Come avrei colmato l’ignoranza
che detestavo? Oh, io non la detestavo più. Era grazie all’ignoranza che la
gente e le cose sapevano ancora sorprendermi, come quando da piccoli si osserva per
la prima volta la terra in giardino, rannicchiati con il petto sulle ginocchia a quattro piccoli palmi di distanza da essa.
Ma improvvisamente mi tornò una paura. Ora
non potevo permettermi quei pensieri, non potevo creare quelle illusioni,
quelle domande. Avevo un esame da sostenere a giorni. Avevo un esame dopo
qualche giorno.
Così tornai dentro, al mio posto, in biblioteca,
a studiare. Dormire è una delle migliori fughe di sempre, si fugge interamente
dalla vita. Sentire piegare le gambe per sedermi fu l’ultima sensazione e già
giravo le pagine, dormivo come non mai, studiando alienata e allineata agli altri,
sino a non potevo sapere quando.