Da quasi un anno non pubblico
interviste, così oggi ricomincio con l'attore e regista, nonché mio Maestro di
teatro, Christian Poggioni, nato il 28 febbraio 1972 a San Paolo del Brasile e
diplomatosi in recitazione presso la Scuola del Piccolo Teatro di Milano nel
1999. Studente del grande Giorgio Strehler in Italia, nel 2003 prende il
massimo dei voti nel master in regia alla School of Cinematic Arts – University
of Southern California di Los Angeles.
Una biografia artistica talmente bella che
vi invito a leggere interamente cliccando sul link qui di seguito, affinché non
venga tralasciato nulla: http://www.christianpoggioni.it/bio/
Christian,
ho letto che ti sei anche laureato con il massimo dei voti alla Statale di
Milano. In che cosa?
In scienze ambientali. Ho due passioni
nella vita, una è il teatro e l’altra sono i viaggi. I viaggi veri, non
comprati, ma mi piace stare nella natura, fare campeggio, andare in barca a
vela. Quindi prima di fare teatro seguivo questo percorso che mi portava all’ambiente.
Mi piaceva molto, tuttora mi piace. E quindi mi ero iscritto in una facoltà
dove potessi studiare l’ambiente e la natura. Durante gli studi ho cominciato a
fare corsi di teatro, come fanno tutti all’inizio, per gioco, per diletto. Da
lì il teatro è diventato sempre più la passione prevalente. Ho continuato a
viaggiare, però poi ho provato a fare gli esami di ammissione al Piccolo
Teatro, è andata bene e quindi ho fatto l’Accademia lì al Piccolo. Dopo, una
volta diplomato, ho finito l’università. Ricordo che già lavoravo, ero in
tournée, e contemporaneamente finivo la tesi per l’università.
È
stato pesante portare avanti così brillantemente studi universitari e
formazione teatrale?
Per me no. Non perché non abbia lavorato
molto, anzi. Finivo l’anno scolastico al Piccolo Teatro e l’estate davo gli
esami che mi rimanevano. Però sono due attività così diverse, il teatro e lo
studio universitario, che mi sembrava di riposarmi: toglievo la tuta, smettevo
di sudare, di faticare, e cominciavo a studiare delle cose scientifiche, mi
mettevo al computer. Viceversa, finivo gli esami e riprendevo a fare
teatro-danza, recitazione… quindi sono due attività molto diverse. Io sono uno
sicuramente curioso e mi piace fare tante cose. Per me non è stato pesante e
sicuramente sono stato molto impegnato, però mi sono divertito.
Quando
e come hai capito di voler diventare attore? Qualcuno ha mai provato a
dissuaderti dal tuo sogno?
Avrò avuto venti anni quando ho
cominciato. E no, anzi, nel mio caso, essendo i miei genitori musicisti, mi
hanno incoraggiato. Cosa che non capita sempre. Mi hanno capito e mi hanno
incoraggiato.
Devo
ammettere che in particolare ci sono due punti nel tuo curriculum che mi hanno
colpita, a prima lettura. Il master in regia a Los Angeles e, nel 2008, la tua
collaborazione nel ruolo di assistente alla regia alla Kaye Playhouse di New
York per Le nozze di Figaro.
Raccontaci queste esperienze americane.
Fa parte di questa cosa di cui ti dicevo,
dell’essere curioso. Anche il percorso universitario l’ho fatto con passione,
non è che l’ho fatto per avere una riserva. Mi sono laureato con 110 e lode,
quindi fa parte un po’ di me lasciarmi prendere dalle cose che mi appassionano.
E allora lì, in quel momento, volevo un po’ vedere come, non solo fare l’attore,
ma lavorare sugli spettacoli anche dall’esterno. E poi avevo bisogno, sentivo l’esigenza
di viaggiare, di andare all’estero a farlo perché stavo facendo tante tournée
in Italia, nei teatri con il Piccolo andavamo in giro, con il teatro stabile di
Trieste, con Calenda. E allora ho cercato un po’ cosa offrissero le università
straniere e ho trovato questo collegamento con gli Stati Uniti. Che sicuramente
consiglio. Fare esperienza all’estero cambia il modo di guardare le cose qua.
Il mondo è grande, se si può, si vada e poi si torni. Difatti ho fatto uno
spettacolo che si intitola “Nostos” (“Ritorno”), sul viaggio. È bello andare, è
bello tornare. Poi dipende anche da ciò che uno trova.
Il
teatro antico negli States che interesse riscuote?
Sicuramente non è coltivato come da noi.
Loro guardano il mondo contemporaneo, guardano la contemporaneità. Sai, negli
Stati Uniti, essendo anglosassoni di matrice, loro hanno Shakespeare. Di teatro
antico fanno poco.
Se
invece dovessi suggerire una scuola di recitazione naturalistica, di teatro
contemporaneo, che nome ti sentiresti di dare?
Facciamo una premessa. Un bravo attore può
fare sia il telefilm che la tragedia greca, perché le tecniche per recitare
sono diverse ma sono state elaborate negli anni per arrivare allo stesso
risultato. Quindi un bravo attore… poi non tutti sono attori a 360° e quindi
magari chi si è formato esclusivamente con la scuola naturalistica, come quella
che discende da Stanislavski, poi è stata trapiantata da Strasberg a New York,
può avere difficoltà a passare da Čechov alla tragedia
antica.
Ma questo non è il caso di chi ha fatto
la scuola del Piccolo, dove hai un percorso ben preciso, per cui parti a
recitare in versi, per poi passare attraverso Shakespeare, e poi arrivare a Čechov. Quindi parti da qualcosa di epico, per passare a
un linguaggio ricco di metafore, elaborato, per poi arrivare al linguaggio
naturalistico. Si recita sempre nello stesso modo, si applica la recitazione a
contesti diversi. Questo dal punto di vista ottimale. Ma io, anche come
insegnante, non riesco a concepire di poter insegnare un solo autore, anzi
recitare certe cose dà la padronanza per recitarne altre. Se uno impara a
recitare i testi classici, è chiaramente più facilitato a recitare i testi
contemporanei. Viceversa no. È molto più facile che un bravo attore di teatro
possa essere un bravo attore di cinema, che il contrario, che un attore che
nasce solo al cinema possa avere la stessa resa in teatro. I motivi sono
molteplici. Nel mondo anglosassone, ho visto, dato che me lo chiedevi, che c’è
un travaso maggiore tra cinema e teatro: molti divi del cinema erano all’inizio
attori di teatro, o lo sono tuttora. Guadate Ian McKellen. In Italia c’è un po’
più separazione tra i due mondi, non comunicano così tanto. Negli ultimi anni
sempre di più, ma tradizionalmente cinema e teatro in Italia sono più separati
di quanto lo siano nei paesi anglosassoni.
A
lezione ci hai detto che sono necessari dieci anni per la formazione di un
attore. È stato Strehler a insegnartelo. Cos’è in particolare a cambiare nel
tempo? La percezione di sé o cos’altro?
All’inizio uno
fa teatro perché il teatro lo fa stare bene, il teatro all’inizio è una
terapia, o semplicemente un’attività che fa stare bene anche se non si ha
bisogno di una terapia. All’inizio è sempre così. Uno fa teatro perché scopre
di avere un corpo, che il corpo è espressivo; si scopre di avere una voce,
scopre il racconto, la dimensione, e all’inizio il pubblico intimidisce. L’attore,
l’allievo, è teso all’inizio, di fronte al pubblico. Man mano che passano gli
anni l’attore dovrebbe accorgersi che l’energia non viene più dal fatto che lui
sta bene sulla scena, anche, ma soprattutto dal fatto che c’è un pubblico. Negli
anni cambia soprattutto questo. Per me all’inizio il pubblico era una fonte di ansia; adesso, se non c’è il
pubblico, non mi sento bene. Non riesco a provare da solo.
Provo perché… ma
non riesco a recitare da solo. Questo non sempre capita, purtroppo. Il rischio
per l’attore è di continuare a recitare per se stesso. Credo che un attore,
dopo, debba vivere perché fa dei regali al pubblico. Se si continua a recitare
per se stessi, continua ad essere solo una terapia. Poi, può essere un bravo
attore, però lo si vede l’attore ermetico o il regista ermetico.
Ecco, ci siamo, vorrei che ci parlassi di due grandi
nomi del teatro italiano. Giorgio Strehler, cominciamo da lui. Raccontaci la
lezione più importante che ti ha dato, il ricordo più intenso, dicci un po’ ciò
che vuoi.
Mi ricollego a quello che dicevi dei
dieci anni. Lui ci disse subito: “Voi pensate, ragazzini, di avere la
vocazione, di essere qua… voi adesso non avete nessuna vocazione. Tra dieci
anni scoprirete se avevate la vocazione”. Al momento non lo capivo, eravamo
tutti lì gasati, entusiasti, orgogliosi. Eravamo ventiquattro. Orgogliosi,
pensando che il teatro aspettasse noi. Eravamo lì per noi stessi.
Invece dopo dieci anni, resistendo, chi
ha resistito, ha scoperto di avere la vocazione, ovvero ha resistito a tutte le
difficoltà che in realtà questo privilegio di fare un bellissimo lavoro come il
teatro porta… l’insicurezza. Perché è vero che oggi tutti i lavori sono incerti
però il teatro non è da meno, e sicuramente uno, che non sa vivere mese per
mese inventandosi il lavoro, è meglio che non intraprenda questa strada. Ecco
chi resiste a tutto questo, dopo anni allora può dire, “forse avevo una
vocazione”. Ma questo si scopre dopo tanti anni. All’inizio quando si è in un’Accademia,
con Strehler, è facile essere entusiasti.
Da
pochi giorni ci ha lasciati invece Luca Ronconi, altra grande figura dei sipari
italiani, direttore artistico del
Piccolo Teatro per moltissimi anni. Hai avuto modo di collaborare anche con
lui? Un ricordo o un insegnamento anche indiretto?
No, lui è arrivato quando è morto
Strehler, noi eravamo ancora a scuola, ma venne pochissimo a vederci, non
abbiamo avuto rapporti noi. Non ho mai lavorato con lui, è un regista che non
conosco, se non attraverso i suoi spettacoli. L’ho conosciuto personalmente, sì,
ma non ho mai approfondito. Ha proposto un tipo di teatro che era l’altra
faccia della medaglia rispetto al teatro che proponeva Strehler al Piccolo. C’è
stato un cambio di direzione. Aveva un capacità di studio del testo immensa. E questo
mi dispiace, di non aver mai potuto frequentare le sue prove. Però devo dire
che i maestri che ho avuto, che sono stati Strehler e anche Peter Stein, e poi gli
ottimi, non famosi ma insegnanti, maestri, come Enrico D’Amato e Michele
Abbondanza, oltre ad insegnarmi tutto, mi hanno preparato a capire tutto quello
che succedeva in teatro. Ovvero, non che io sia diventato… io faccio il mio
lavoro al meglio, cerco di fare bene il mio lavoro, però quello che capisco è
che, di fronte a diverse proposte che arrivano da diversi registi, ho gli
strumenti per capire cosa c’è dietro. Il teatro è sempre un mistero, ma dopo
Strehler e questi insegnanti che ho citato, a volte mi sembra che non ci siano
misteri. Mi sembra.
A
proposito di direzione artistica, sotto la tua guida il 4, il 5 e il 6 marzo, presso
il teatro San Lorenzo alle Colonne di Milano, sarà messo in scena il Misantropo di Menandro dall’associazione
teatrale Kerkìs, di cui sei vicepresidente. Qual è la capacità necessaria alla
direzione di uno spettacolo?
Sì, certo c’è la capacità di
interpretazione del testo, la fedeltà al testo, la capacità di dirigere gli
attori, ovvero di far sì che un attore possa esprimere il meglio di sé. Quindi
avere la capacità maieutica sull’attore. Il regista può essere intellettuale
all’inizio, le prove a tavolino, ma poi il regista deve saper fare suonare gli
strumenti dell’orchestra, che sono gli attori. Quindi spesso, se il regista è
stato anche attore, questo non guasta. E il regista deve avere amore per il
pubblico, senza l’amore per il pubblico la voglia di raccontare qualcosa a
qualcuno, anche lì diventa terapia, fa un’operazione limitata.
La
direzione drammaturgica del Misantropo
è invece affidata alla Prof.ssa Elisabetta Matelli, docente di Storia del Teatro Greco e Latino e di Retorica Classica presso l’Università
Cattolica. La stessa docente che cura con te il Laboratorio di drammaturgia
antica e il Corso di Alta Formazione Teatro Antico in Scena ormai da diversi
anni. Come nasce questo sodalizio formidabile che ha dato avvio ad una serie di
attività culturali e formative di notevole interesse? È stato un incontro
casuale o ricercato?
La invitai a rappresentare ad Erba,
vicino Como, uno spettacolo che lei aveva montato. E da lì ci siamo conosciuti,
lei mi ha chiesto se volevo seguire il laboratorio in università negli anni
successivi. E poi da cosa nasce cosa. La prima volta ho collaborato con lei nel
2004, poi non continuativamente, ci sono stati degli intervalli.
Da
poco hai interpretato l’Apologia di Socrate.
Qual è il tuo prossimo spettacolo, da attore?
Presto metterò in scena Il Vangelo secondo Pilato, e poi c'è anche Shakespeare’s Memories.
L’ultima mia produzione riguarda Shakespeare.
Shakespeare per qualsiasi attore è una festa da recitare, è un giardino dell’abbondanza,
dona molte chance.
A
questo punto, cari lettori, vi riporto qui di seguito un breve scritto di
Christian… il racconto di quando incontrò Ian McKellen, uno dei maggiori interpreti
shakesperiani viventi, e volto assai noto nei grandi schermi per aver dato
forma a personaggi quali Gandalf e Magneto.
L’ispiratore di Shakespeare’s Memories è il grande Ian McKellen, fuoriclasse della
scena mondiale. Anni fa, il suo recital Acting
Shakespeare è stato applaudito nei teatri di tutto il mondo. È uno
spettacolo che ho studiato a fondo, cercando di assorbire l’energia
straordinaria che emana da questo attore e dal suo modo di recitare
Shakespeare.
Ho avuto la fortuna di conoscerlo
qualche anno fa.
Londra, dicembre 2007. La leggendaria
Royal Shakespeare Company recita uno dei massimi capolavori del bardo: Re Lear.
Il protagonista è Sir Ian McKellen, divo
planetario per la parte di Gandalf nel Signore
degli anelli, ma soprattutto uno dei più grandi attori di teatro
shakespeariano viventi. Ian McKellen che interpreta Re Lear è un evento
storico, forse l’apice della parabola artistica di un interprete immenso.
Sono venuto apposta dall’Italia per
ammirarlo e imparare. Mancano un paio d’ore all’inizio e mi aggiro nei dintorni
del New London Theatre. Ho fame, scorgo una minuscola bettola ed entro. Pochi
tavolini deserti. Solo un vecchio in un angolo ed io. Sorseggiando un caffè,
con la coda dell’occhio osservo il vecchio, barba e capelli lunghi e
bianchissimi, folcloristico. Deve essere un clochard, penso. Mangia distratto
un piatto di sconfortanti maccheroni inglesi al pomodoro, prendendo appunti su
scartoffie stropicciate che ingombrano il tavolino. La verità mi colpisce
all’improvviso: è uguale a Gandalf, non è un clochard. È Sir Ian McKellen. E le
scartoffie non sono scartoffie. Sono il copione del Re Lear.
Ecco, il leggendario Ian McKellen, che a
due ore dall’inizio ancora studia e approfondisce. Potrei mai disturbarlo? Non
avrò un’altra occasione come questa, devo provarci, al massimo mi liquiderà.
Mi avvicino con in mano una copia del Re
Lear e abbozzo un timido “Excuse me Sir, are you…?”
Non mi lascia finire, solleva il capo
dal copione, annuisce e con un semplice gesto mi invita a sedere. Emozionato
prendo posto e nel quarto d’ora successivo scopro di essere di fronte non solo
a un maestro, ma a un grande uomo. Subito si interessa a quello che faccio io
in Italia. Si illumina quando mi sente parlare del Piccolo Teatro, dice che la
Tempesta di Strehler è il più bello spettacolo shakespeariano che ha visto
(detto da lui ha un valore immenso), aggiunge che però gli attori italiani
tendono a replicare senza impegnarsi a creare ogni sera. Mi confida che alcune
scelte del regista del suo Lear sono discutibili, aggiungendo “vedrai e
capirai”. A un certo punto sfoglia il mio libro di Re Lear, su cui ho fatto
alcuni tagli per un workshop con dei ragazzi, e mi dice “Ah.. anch’io ho
tagliato questa battuta”. Mi tratta come fossi un suo pari, semplice, diretto,
senza un’ombra di supponenza né di falsa modestia. I minuti corrono, mi invita
ad accompagnarlo mentre fuma una sigaretta fuori dalla bettola. La
conversazione è così spontanea e rilassata che mi sembra di conoscerlo da anni.
È il momento di andare. Gli lancio un
“toy toy!” (in bocca al lupo) e via, lui in camerino, io in platea.
Lo spettacolo è straordinario, McKellen
inarrivabile. Un’opera d’arte vivente.
Lo aspetto in strada all’uscita artisti.
Non sono il solo. Mi vede da lontano e mi chiama “Christian!” Quando arriva di
fronte a me, Sir Ian McKellen, il re degli interpreti, con tono sincero mi
chiede “com’è stato?” e felice di
sentirmi farfugliare un impacciato apprezzamento, mi lascia un biglietto a suo
nome: potrò tornare a rivederlo il giorno dopo, in un teatro che da mesi è
“sold out“.
L’insegnamento artistico ed umano di Sir
Ian McKellen mi accompagna in ogni nuovo lavoro che affronto. Spero che questo Shakespeare’s Memories possa restituire
anche solo un briciolo della sua arte.
Christian,
a sei anni quasi vomitai sul palco durante il primo saggio di danza classica… Da
piccola non volevo fare neppure la Madonna per il presepe vivente! Eppure sarò
presente nelle Baccanti di Euripide
che metteremo in scena per maggio con il Corso di Alta Formazione di
quest’anno.
Tempo
fa hai detto che gli attori sono spesso timidi. Ma come si fa a contrastare
questa timidezza, specialmente nella voce? Come si lavora con la timidezza sul
palco? Bastano l’esercizio e l’esperienza?
A volte, sì, gli attori sono timidi e
fanno teatro proprio perché è un mezzo per esprimersi ed uscire fuori. A volte,
invece, gli attori proseguono anche nella vita a fare gli attori e… dipende
anche lì, c’è di tutto anche nel mondo degli attori.
Si può lavorare su questa timidezza
facendo teatro. L’esperienza permette di fare passi in avanti. Esperienza vuol
dire la quantità di ore che passa in scena. Come in tutte le cose, la quantità
di tempo permette di fare passi in avanti, non ci sono scorciatoie. È la
costanza.
Caro
Christian, ti ringrazio per la disponibilità e per averci regalato le tue
risposte. Non mi resta che chiederti un saluto per i nostri lettori.
Spero di avervi presto ad un mio
spettacolo, andate sul mio sito che trovate il calendario.